Capitolo terzo: L’annuncio del Vangelo

Compito difficile riassumere in poche battute un capitolo così denso di questa lettera che Francesco ha inviato ad ognuno di noi. Compito ancora più difficile mettere in atto quello che Francesco ci scrive ad ogni apertura di pagina.

Se “evangelizzare” è il filo conduttore di tutta l’esortazione, qui, questo terzo capitolo, sembra rappresentare il cuore del tema.

Chi è il protagonista di questo annunciare il Vangelo? Cosa dovrà annunciare? Perché? In che modo?

Qualcuno potrebbe obiettare: dove sta la novità? Non è sempre stata una questione fondamentale per i cristiani parlare agli altri e convincere sulla verità dell’esistenza di Dio che si è rivelato attraverso la vita di Gesù Cristo? Sì, ma nella storia umana che cambia e che ci ha portato in questa contemporaneità così distratta e “liquida” serve forse fermarsi un poco a ripensare a tutto ciò e farlo attraverso una traccia preziosa che ci viene sapientemente e teneramente regalata dalla penna del Papa.

Il soggetto dell’evangelizzazione è prima di tutto un popolo – noi – che va camminando verso Dio. Al centro di questo evangelizzare ci sono «il primato della proclamazione di Gesù» e «il primato della grazia», una salvezza che è il risultato non delle nostre azioni, ma della misericordia di Dio. Una salvezza che è per tutti, visti non come esseri distanti o estranei uno all’altro, ma come un insieme di persone in situazione concreta, legate da rapporti stretti e costruttivi. Una comunità umana che si chiama Chiesa e che deve dare speranza, nutrendosi della speranza che viene direttamente dalla fede. «La Chiesa deve essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo». È una comunità numerosa e sparsa ovunque per il pianeta Terra, composta di culture differenti e quindi di diversità esistenziali che non minacciano però l’unità della Chiesa, perché c’è sempre lo Spirito a vigilare e ad armonizzare la multiformità delle espressioni umane. Il fatto di essere battezzati ci spinge a testimoniare il nostro credere, senza troppe paure di sbagliare, anzi rassicurati dall’altezza di ciò che stiamo compiendo. «La nostra imperfezione – scrive Francesco – non deve essere una scusa; al contrario la missione è uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere».

Quali sono le vie della evangelizzazione? C’è una forza potente data dalla pietà popolare; «in essa, guardata a volte con sfiducia, si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una specifica cultura e continua a trasmettersi». Saranno le relazioni interpersonali, cioè quel dialogare quotidiano con l’altro, anche se complicato e mai facile, a dare spessore e senso a questa speciale comunicazione cristiana. Ognuno, con il proprio bagaglio culturale, con il proprio carisma, attraverso gruppi e movimenti specifici, potrà contribuire a rafforzare l’unità e l’appartenenza alla Chiesa.

Nel come comunicare, un posto importante ed emblematico è occupato dall’omelia, trattata anche – bellissima l’esemplificazione – come una conversazione tra madre e figlio. Per una predicazione efficace occorrono preparazione, personalizzazione, capacità di presentazione e di attenzione. «Il predicatore deve lasciarsi commuovere dalla Parola… deve scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire… è perciò un contemplativo della Parola così come del popolo».

Che cosa allora “proclamare” nella catechesi? La risposta è apparentemente semplice, ma profondissima, e contiene il primo e principale annuncio, il kerigma: «Gesù ti ama, ha dato la sua vita per salvarti e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti». L’altra faccia della catechesi è «l’iniziazione mistagogica», cioè «la necessaria progressività dell’esperienza formativa in cui interviene tutta la comunità ed una rinnovata valorizzazione dei segni liturgici dell’iniziazione cristiana». Una catechesi che «presti una speciale attenzione alla “via della bellezza” convince che credere in Dio non è solo una «cosa vera e giusta, ma anche bella». Avanti quindi alla ricerca di nuove forme e di nuovi linguaggi per raccontare di Dio; modi che abbiano a che vedere con la bellezza, senza sentirsi o farsi percepire come esperti moralisti capaci di «diagnosi apocalittiche», ma casomai «gioiosi messaggeri di proposte alte, custodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al Vangelo».

Narrare di Dio diventerà allora uno sguardo diverso sul mondo; uno sguardo rispettoso, compassionevole e incoraggiante.

Elvira Fantin

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